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Pena di morte: crimine legalizzato ma uccidere non è la soluzione

Ancora oggi, nel 2021, la pena di morte è un argomento che fa discutere molto. Diverse associazioni internazionali come Amnesty International si battono per portare all’abolizione questa misura nei Paesi in cui è ancora adottata e potremmo dire protetta a spada tratta. Proprio secondo Amnesty il numero di esecuzioni sta calando: secondo un rapporto (come si legge nella rivista del marzo 2020 "I AMNESTY") si è passati, in un’ottica mondiale, da 690 esecuzioni capitali nel 2018 a 657 nel 2019 (escludendo i dati relativi alla Cina, protetti dal segreto di Stato). Infatti, paesi come il Colorado e il Ciad hanno di recente abolito la pena di morte (rispettivamente il 23 marzo e il 29 aprile del 2020). E’ sicuramente un passo in avanti, ma non abbastanza. Il problema c’è ancora e non va messo da parte.

Bisognerebbe chiedersi se si può punire un reato con un altro reato. Un omicidio legalizzato, statale, per “fare giustizia” è paradossale. E’ quanto di più lontano ci sia dalla giustizia e dall’umanità. Anche se il destinatario della pena fosse un assassino a sangue freddo, condannarlo a morte ci renderebbe solo assassini al suo medesimo livello. E il castigo più corretto e più grande, piuttosto che farla finita lì, si compie lasciando in vita chi compie atti del genere. Costringerlo a vedere e sentire il peso delle proprie colpe. Fare di tutto per trainare questi individui ad assumere comportamenti retti, così da poter essere reinserito nella società. E' questo il vero significato del punire.

Cesare Beccaria nel suo trattato “Dei delitti e delle pene”, scriveva: “Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile. Il fine non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali”. Il concetto è facile da inquadrare: uccidere non è la soluzione, ma bensì può esserlo rieducare.